Immigrazione: Rionero Sannitico, il sorriso di chi accoglie

Sono 45 uomini di pelle scura. La mattina presto salgono verso il paese. Si incontrano, parlano, si siedono, si rialzano. Gli immigrati passeggiano con gli occhi rivolti al cielo sognando chissà cosa, scandendo i passi uno alla volta su un asfalto che ormai conoscono bene. Gli immigrati camminano lungo la strada che dal loro rifugio porta al cimitero del paese; è una strada lunga e ampia a tratti coperta da alti alberi. Di tanto in tanto li vedi sedersi sulle panchine. Camminano a gruppi massimo di tre, è raro vederli in gruppi più folti. A volte ai piedi hanno solo ciabatte; sono pochi quelli che hanno un paio di scarpe. Sono magri, alti e si guardano sempre intorno. Chissà a cosa pensano.

Chissà cosa pensavano fosse l’Italia. Sicuramente non sanno che i nostri nonni e bisnonni cento anni fa passeggiavano e speravano guardano l’oceano perché guardare il mediterraneo italiano non soddisfaceva più le bocche da sfamare e gli occhi per guardare. Forse non sanno che tutto questo ai libri si storia del nostro paese è noto, meno alle coscienze di un popolo che ha dimenticato cos’era prima di tutto questo. Proseguendo, li incontri ovunque. Il paese è piccolo e ormai sanno tutti chi sono; sono ragazzi bravi, dicono; c’è chi al proprio paese ha lasciato la madre chi la propria speranza: i figli. Parte della speranza, invece, l’hanno portata con sé, su quella basca di fortuna che li ha condotti in Italia. Sono uomini semplici che con quegli occhi scuri su quella pelle scura, ricordano il tragitto dopo, però, aver apprezzato la meta.

La piccola comunità di Rionero Sannitico, 1500 anime, di cui 591 maschi e 595 femmine, in provincia di Isernia non ha esitato un momento ad accoglierli nel proprio spazio: il paese. Qui vige ancora il principio di proprietà ma nello stesso tempo il principio di rispetto. Qui si danno tutti del “tu”. Non importa se ti conoscono o meno, il “tu” fa sentire uno straniero a casa e un italiano in un luogo amico.

Parlo con una signora lì del paese. Mi dice che se abbiamo panni dismessi possiamo portarli a lei, sarà poi lei a elargirli alle persone più bisognose tramite la chiesa del paese. Dice di avermi già vista in giro, come darle torto. Le chiedo chi fossero tutte quelle persone che vedevo in paese e lei comincia il suo racconto. Sono tre mesi che Rionero è luogo di accoglienza. Dopo lo sbarco avvenuto a Reggio Calabria nei primi giorni di maggio, una cinquantina di ragazzi e ragazze sono arrivati a Rionero accolti presso una ex struttura alberghiera del paese. Provengono da diverse zone dell’Africa sub sahariana, e qui in paese devono restare finché non vengono muniti di documenti identificativi, ottengono il permesso di soggiorno o viene riconosciuto loro lo status di rifugiato. Dalle cronache infatti si legge che in tutto il territorio molisano ben 700 sono i profughi arrivati e 12 le strutture che li hanno ospitati nei comuni di: Monteroduri, Agnone, Pesche, Frosolone, San Pietro Avellana, Macchiagodena, Isernia e Rionero Sannitico, appunto.

Questi ragazzi non avevano nulla, mi racconta. Lei e il parroco del paese sono stati le prime persone che li hanno visti. Erano affamati, senza nulla. Tra di loro vi era anche una donna in procinto di partorire. Manteneva il ventre con tutte e due le braccia, come a dire al figlio di aspettare ancora un po’ per nascere. Non parlavano bene che l’inglese. Erano capaci solo di dire “Germania”. Qualche giorno dopo lei e le altre donne sono andate via forse in quel tentativo di fuga che vi è stato subito dopo l’arrivo in paese. Le cronache raccontano che un piccolo gruppo spontaneamente si è allontanato dalla struttura che li ha ospitati. Casi di fuga non sono rari. Molti arrivano qui con il desiderio di raggiungere il nord dell’Europa a volte per raggiungere le famiglie già arrivate e l’Italia è solo una tappa di un viaggio più lungo. Il gruppo più folto, invece, è rimasto in paese e attende, forse ci vorranno altri due mesi. Da lì non possono e non vogliono andare via. Chiedono un lavoro e alcuni lo hanno pure trovato anche se saltuario; chiedono cibo perché il pasto assicurano ci dicono sia misero e i soldi promessi dal governo, i 35 euro della discordia agli immigrati, non sempre arrivano.

La signora mi racconta con occhi colmi di emozione che il suo paese è bello perché è generoso. Ha accolto tutti questi ragazzi come figli propri. Tutti dal primo all’ultimo. A chi è capace di chiedere danno e a chi non sa chiedere danno lo stesso perché tutti hanno bisogno. I primi giorni dopo l’arrivo tutti hanno provveduto a dare indumenti e coperte, la raccolta di abiti non si ferma soprattutto in vista dell’inverno che qui è molto duro. La notte gela e la neve cade copiosa. Sono tutti bravi ragazzi ci ripete, non fanno nulla. I luoghi comuni esistono ma loro li hanno sfatati tutti. I ragazzi dalla pelle scura la chiamano “mamma”. Non sanno ancora l’italiano ma “mamma” è linguaggio universale. Chissà se sanno che forse noi italiani siamo così accoglienti perché anche i nostri antenati hanno avuto bisogno di chiedere aiuto e hanno chiamato “mamma” una donna che non era la loro mamma effettivamente. Forse la coscienza di chi li giudica non è così pulita come vogliono far sembrare. Lascio il paese con in tasca il racconto di una storia che riconcilia con il mondo, apre il cuore e fa sorridere gli occhi.

Anita Santalucia

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