È salernitana la “Pappessa” del Pastafarianesimo. Intervista a Emanuela Marmo

Ha una chiesa, una struttura con diversi gradi di Ministri di culto, un dio – il “Prodigioso Spaghetto Volante” – e un fondatore, Bobby Henderson. Stiamo parlando del Pastafarianesimo, una religione che lo stesso Henderson, uno scienziato laureatosi in fisica all’Oregon State University, ha fondato quando il consiglio per l’istruzione del Kansas permise l’insegnamento del creazionismo in qualità di materia alternativa all’evoluzionismo. Così il giovane, nel 2005, chiese di tenere un corso universitario di Pastafarianesimo, dove il Prodigioso rappresentasse un’entità composta da spaghetti e polpette. Qui tutte le informazioni, anche sulla Chiesa Pastafariana Italiana. Cos’è la chiesa Pastafariana? Un modo di rappresentare la libertà d’espressione, una sorta di grande metafora sul senso della sacralità e del divino, che riporta la religione alla dimensione di status spirituale e non politico. E poi rappresenta anche uno sguardo ironico e denso di satira contro qualsiasi tipo di violenza e totalitarismo. Nella struttura generale della chiesa compaiono il ministro di culto di Primo grado: reverendo o, con termine arcaico, beremita. Il termine “Beverendo” è gergale, ma non istituzionale. Ministro di culto di Secondo grado: reverendo o, con termine arcaico, parrocchetto: guida una Pannocchia. Ministro di culto di Terzo grado: reverendo sovrintendente o, con termine arcaico, Frescovo. Include titoli tradizionali come Arcifrescovi, Pastriarchi e Priori: guida una diocesi. Ministro di culto di Quarto grado: reverendo direttore o, con termine arcaico, scardinale: è un MDC eletto nel direttivo. Ministro di culto di Quinto grado… La Pappessa. E noi siamo andati a intervistare proprio il capo spirituale (in Italia) di questa nuova religione, che conta migliaia di fedeli in tutto il mondo. Lei è Emanuela Marmo, 38 anni di Salerno, conosciuta come Pappessa Scialatiella Piccante I, la pastefice massima della chiesa pastafariana italiana.

Laureata in Lettere moderne a Salerno, è autrice di libri come “Mamma, devo dirti una cosetta…” e “Toti, il pirata cambusiere” in uscita con Arkadia editore con le illustrazioni di Giancarlo Covino e le ricette per bambini di Antonio G. Chessa. La sua tesi di laurea era incentrata proprio sulla satira politica inglese. Cura una rubrica sull’argomento: www.ilpasquino.net e nel 2006-2008 ha organizzato il Festival internazionale della satira di Salerno, mentre nel 2014 ha ideato la rassegna “Satira a piccole dosi”. Ha inoltre curato raccolte di vignette di Massimo Bucchi, mostre e presentazioni tra cui “Porno”, volume di Giorgio Franzaroli.

Emanuela, su cosa si fonda il Pastafarianesimo?

«Quando Bobby Henderson fondò questa religione ha risvegliato il pirata che è dentro di noi. I pirati pastafariani ritengono che la religione sia un ambito intimo e privato e non debba entrare negli spazi che discendono dallo Stato. Le istituzioni dovrebbero essere neutrali e aconfessionali. Bisognerebbe riflettere su come i pensieri religiosi riescano a diventare legge. Se la legge italiana in ambito di riproduzione e sessualità si ispira alla confessione cattolica, consentendo o proibendo una serie di cose, è una legge che esprime lo spirito di una sola categoria della società. Mentre dovrebbe esserci la libertà di scelta. Bobby Henderson ha rappresentato un esempio in questo senso. Dice “sii iro- nico e apri gli occhi, benda l’occhio stolto e apri quello della razionalità. Quando noti le incongruenze non essere intollerante ma rispondi con l’arma dell’ironia, pirateggia il mondo e rendilo più giusto e paritario”».

Cosa significa essere un pastafariano?

«Significa venerare il nostro dio e celebrare messa in suo onore. Questo avviene al momento del pasto. Ogni volta che mangiamo e beviamo preghiamo il nostro dio. Il nostro linguaggio è metaforico ma anche valoriale, la nostra divinità è fatta di pasta, e la pasta la puoi condire come a te piace. Sul piano reale, significa che tutti i condimenti, apportati per dare gioia alle persone, sono uguali tra di loro. Il mio godimento è come il tuo, la mia tradizione è come la tua. Ma essere pastafariano significa anche aggiungere un posto a tavola, conoscere l’altro. Siamo grandi sostenitori della macchia sulla camicia, perché vuol dire che non solo hai mangiato come ti piace, ma sei stato attento a guardare negli occhi della persona che ti stava di fronte. La purezza si addice solo all’acqua potabile. Nella realtà umana la contaminazione è la possibilità di consentire il progresso e l’evoluzione. Quella del cibo e della tavola è una grande metafora, uno strumento che mette a confronto realtà differenti. Parla dei rapporti umani. La nostra dimensione spirituale è quella dell’ebrezza, la gioia di vivere, il nostro senso di libertà si costruisce sulla fiducia e sulla capacità di discernimento delle persone».

In questo senso, siete impegnati in diverse campagne sociali.

«Sì. Supportiamo l’associazione Luca Coscioni per l’eutanasia legale, quindi per il riconoscimento dei diritti di libera scelta della persona nel trattamento di fine vita. Siamo anche impegnati in una campagna che promuove la rimozione dei reati di blasfemia e vilipendio dalle normative. In Italia la blasfemia è una bestemmia ed è sanzionabile. Siamo attivi nel movimento Lgtb. Il filo rosso è la libera scelta. Colleghiamo questa libertà alla responsabilità fondata su dati certi e scientifici».

Come hai conosciuto il Pastafarianesimo?

«Nel 2014 ho organizzato all’Ecobistrot di Salerno una rassegna sulla satira. Una delle tematiche ricorrenti della satira è quella religiosa. Sapevo del Pastafarianesimo e pensai di parlare di questa tematica nella rassegna. Mi interessava il fatto che una religione scegliesse il linguaggio ironico come via di comunicazione. All’epoca avevo anche una rubrica di satira a Radio Base, con una partecipazione al programma “Santi e Briganti”. Scoprii con meraviglia che anche in Italia c’era una chiesa Pastafariana. Li ho contattati. Mi sentii toccata dalle sacre appendici del Prodigioso e ci fu il risveglio del pirata dentro di me. Fondai una “Pannocchia” in Campania, a Salerno. L’8 dicembre sono stata eletta Pappessa, la guida spirituale. Diffondo i valori pastafariani e mi assicuro che i miei fedeli siano trattati bene come gli altri religiosi. Spesso non ci autorizzano a entrare nei posti con il nostro scolapasta, un copricapo sacro».

Quali sono le basi di questa religione?

«Iniziamo col dire che il nostro mondo è nato a causa di una sbronza. Il Prodigioso si sbronza, cade dal letto ed è il Bing Bang. Nasce così un mondo imperfetto. Essendo il Prodigioso un dio simpatico e divertente, ci ha creati pirati. Ecco perché il mio scolapasta è inserito in un tricorno. Sono una piratessa pastafariana. In Italia la carica dura quanto dura il concistoro che lo ha eletto. Questo dovrebbe essere il mio ultimo anno di pappato. Lo scolapasta ha un valore reale e simbolico. Lo usiamo per scolare la pasta e celebrare il nostro dio, ma rappresenta anche il fatto che dobbiamo scolare via – come l’acqua di cottura – i pregiudizi, le resistenze e trattenere veramente qualcosa che può essere condiviso e che può dare nutrimento».

Come si pone il vostro movimento religioso nei confronti delle attuali crisi economiche e guerre internazionali?

«Non abbiamo la possibilità di intervenire sui sistemi economici. Il pastafariano nel suo piccolo è altruista, l’associazione religiosa che ci mette insieme si fonda sul volontariato e l’aiuto reciproco. Le crisi sono momenti positivi. La crisi è l’occasione di approntare cambiamenti. Quando emergono le problematiche, ecco che i governi e gli stati possono adottare strategie nuove rinnovando la società, guardandola con occhi nuovi. Per il pastafariano il confine, il barricare non ha senso. Bisogna riportare la religione alla dimensione sacra. Le guerre spacciate per questioni di religione poi lo diventano. La stessa religione diventa strumento di traino e reclutamento. Questo perché a essa si è dato un potere che non dovrebbe avere».

Da dove nasce la passione per la satira?

«L’ho studiata e ne volevo rivendicare il valore culturale. C’è la satira giusta in ogni paese. In Italia ci sono i vignettisti. Ma la vignetta ha un po’ esaurito la sua capacità. Ci sono altri metodi. Per esempio la stand-up comedy, cioè il monologo, che funge da gavetta per i comici di cultura statunitense e anglosassone. La vignetta dei paesi mediorientali sta vivendo una fase di grande rigoglio. A loro consente il superamento della barriera linguistica. Hanno potuto raccontare la loro esperienza di dittatura, del conflitto, il loro rapporto con la nostra cultura. Una cosa interessante dei vignettisti arabi e nordafricani è l’uso della vignetta in movimento. In Tibet, invece, dove c’è una censura forte, esiste una forma di satira rappresentata dai mimi, i quali entrano nei locali pieni di turisti e rappresentano, attraverso il mimo, la loro esperienza di dittatura. Non sono spettacoli per essere pagati, sono forme di espressione. Da noi, in Italia, se la satira non buca le barriere con una terminologia violenta, allora non arriva».

Quali sono i tuoi punti di riferimento, nel campo satirico?

«Al primo posto, Antonio Rezza. Lui è la satira con la s maiuscola. Per quella televisiva, Corrado Guzzanti. Giorgio Montanini per la stand-up comedy. Poi ci sono Massimo Bucchi, Giorgio Franzaroli, il progetto Lercio, Natangelo. Ammiro molto Astutillo Smeriglia. Spero di intervistarlo, un giorno».

Davide Speranza

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