Food, accoglienza e turismo al tempo del Coronavirus; stato dell’arte e scenari possibili.

Le misure decretate per moderare la diffusione dell’epidemia di Covid-19 sembrano essere l’unica via per ridurre al minimo il contagio. Lo conferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità e le lacunose e contraddittorie analisi epidemiologiche. Una cura da cavallo che sta mietendo vittime nel fragile tessuto produttivo italiano, soprattutto tra le imprese e gli operatori dei settori food, accoglienza e turismo. Questa filiera, per numero di imprese, per fatturato, numero di addetti e indotto, rappresenta in assoluto il valore più importante del PIL del Bel Paese.
Inizialmente tutti gli operatori hanno reagito con responsabilità e disciplina, allineati e coperti a salvaguardare la salute propria e quella dei propri clienti. Ad oltre un mese dalle chiusure, senza una oggettiva visibilità su cosa accadrà nel breve-medio termine e la diffusa incertezza su quali manovre economiche e fiscali si adotteranno a sostegno, montano oggi la preoccupazione che tutto vada in malora e sono già molti quelli che si sentono definitivamente travolti dagli eventi.
In Campania il timore diffuso deve fare i conti con la visione delle autorità regionali, che hanno scelto il rigore totale che non tollera alcuna deroga, scontrandosi di fatto con la speranza degli operatori di trovare uno spiraglio per ritornare a lavorare anche a scartamento ridotto.
Ne parliamo con Maurizio Cortese, operatore del settore ma anche profondo conoscitore delle dinamiche che regolano trasversalmente la filiera.
Tre domande:
Maurizio Cortese, cosa sta accadendo, chi potrebbe tenere le redini della questione, quando e come sarà possibile uscirne e perché?
<< Le redini non possono che tenerle la comunità scientifica e le nostre istituzioni, qualsiasi tentativo di pressione a riguardo di fronte a quella che oramai è una tragedia di dimensioni epocali è un atteggiamento a mio parere del tutto irresponsabile. Anche se c’è da dire che la categoria dei virologi hanno fatto del loro meglio per confonderci le idee, avendo detto tutto e il contrario di tutto, pur avendo l’alibi di non conoscere questo nuovo virus. In ogni caso, per quanto mi riguarda, dialogo si, pressioni no.>>
Si è scatenata le guerra del delivery. Ha senso combatterla tenendo conto delle dimensioni medio-piccole degli operatori, del tipo di offerta di prodotto e della impari competizione con le grandi catene?
<< Se da un lato è comprensibile che le persone vogliano tornare alle loro attività, dall’altro come ho già detto il tutto va deciso da chi se ne deve assumere la responsabilità, comunità scientifica e istituzioni. È stato chiaro a tutti, sin dall’inizio, che il contenimento del virus passa esclusivamente attraverso la rigida quarantena e le regole che ci sono state dettate. Purtroppo in tanti non si rendono conto che aprire al delivery in questo momento comporterebbe dei rischi per la popolazione troppo alti, considerata anche la conformazione urbanistica della città, mi riferisco a quella di Napoli, composta da quartieri con la densità di popolazione che non ha pari in Italia e in Europa. Tutto questo con il virus che circola ancora indisturbato fra noi. Arriverà il momento del delivery quando le istituzioni lo decideranno.>>

Quali gli strumenti possibili per coniugare business e distanza sociale in un settore dove la comunanza, la convivialità e il servizio rappresentano elementi fondamentali?
<< È innegabile che le due cose non vanno sicuramente d’accordo, ma tutti ci auguriamo che attraverso un vaccino immesso sul mercato a tempi di record, trattandosi di un’emergenza che coinvolge l’intero pianeta, si possa tornare quanto prima alla normalità. Nel frattempo bisogna necessariamente stringere i denti cercando di rinegoziare tutte le condizioni economiche e fiscali non allineate allo stato attuale delle cose. Purtroppo, lo dico con grande amarezza, tutto questo comporterà la scomparsa di molti di quei locali commerciali che prima del coronavirus in qualche modo galleggiavano, sarà necessario modificare in qualche modo le nostre vecchie abitudini. Sono del parere che, anche quando tutto ciò sarà finito, le persone non saranno comunque più disposte a condividere locali affollati, condizioni igieniche precarie, per cui la cosiddetta “distanza sociale” sarà qualcosa che finirà con l’appartenerci anche in futuro. Chi prima comprenderà che l’emergenza non sia solo quella del coronavirus, ma anche le conseguenze psicologiche che comporterà in tutti noi, più avrà titolo di dire la sua quando il mercato tornerà a crescere. >>
E’ una analisi lucida quella di Maurizio Cortese, direi anche un po’ prudente tenendo conto del diffuso e talvolta chiassoso umore degli operatori più in vista e conosciuti.
A parere di chi scrive, per le ragioni già espresse nell’intervista e tenuto conto delle difficoltà oggettive, le preoccupazioni sono assolutamente reali. Il delivery è però una pezza pericolosa, porta poca acqua ai mulini e fa circolare troppe persone in strada. Le esperienza già vissute prima di questa emergenza ci raccontano che i rider sono vettori difficili da gestire, disponibili alle alte opportunità e spesso in fila ad aspettare un “ingaggio” facile presso gli operatori del fast food. Se questo avrebbe un senso per alcuni, per molti altri diventa improponibile se non attraverso un fai da te senza rete di sicurezza.

Francesco Paciello

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