Tutti scomparsi | I giovani alla ricerca della felicità

La felicità è un argomento politico, se non si ridicolizza come è stato fatto in questi giorni. Renzi ne enfatizza la portata, la destra ne esagera la capacità, la sinistra esalta al contrario. Questo è quello che passa nell’immaginario collettivo.

Polis SA Magazine alcuni mesi fa sperimentò una serie di interviste a personaggi di varia estrazione, per capire cosa pensassero di alcuni temi della politica. Tra le domande ve ne era una in particolare: “La felicità è un argomento politico?”. All’inizio poté sembrare una provocazione, ma, piano piano, è divenuta la questione che più di altre ha dovuto esigere una riflessione particolare. E proprio dall’ultima domanda delle dieci che cominciamo un’analisi, volutamente a freddo, delle risposte che i “nostri” ci hanno offerto.

L’argomento è veramente rivoluzionario? Se lo accostiamo all’epoca che stiamo vivendo sicuramente sì, certo però a lungo, forse lunghissimo termine. Prima di tutto facciamolo diventare un argomento serio e concreto. Il problema è come arrivarci, e una delle soluzioni suggerite è che ci possa essere una generazione, in questo Paese, che vorrà fare un sofferto e disinteressato regalo alle generazioni successive, così come già fatto con la Costituzione. Solo così possiamo dare inizio a un progetto politico lungimirante per davvero.

Tanto è difficile darne una definizione che nelle interviste della nostra rubrica “Pensieri Contemporanei”, alla domanda sopra citata, ognuno dei “nostri” ha risposto in maniera diversa. Erri De Luca sostiene che la felicità sia un diritto e quindi essa o esiste o manca. Alfonso Conte afferma che semplicemente la felicità dei governati dovrebbe essere l’obiettivo principale di chi governa. Enzo Russopensa che sia davvero impegnativo e che quindi la felicità vada costruita giorno dopo giorno, ognuno nel proprio ruolo. Dacia Maraini addirittura non crede molto nella felicità e ci si accorge solo dopo di esserlo stato. Dallo Stato ci si aspetta un buon governo, trasparente, onesto, efficiente e fatto da persone generose che sappiano dare esempi di civiltà e di dedizione. Marcello Masi ritiene che sia necessario che la felicità sia materia di riflessione politica continua. Mauro Maccauro risponde che una comunità felice si misura migliorandone le condizioni di vita, tanto è vero che il sultano del Bhutan si preoccupa di misurare il Fil, la felicità interna lorda. Forse sarebbe meglio guardare a un sultanato? Per Mario Avagliano dovrebbe essere riconosciuto costituzionalmente, un principio da riconoscere a tutti i cittadini, nel lavoro, nella scuola, nella vita sociale. Denis Nesci scrive che se vogliamo fare una forzatura, allora possiamo dire che la Buona politica può aiutare la gente a essere felice. Conclude Pino Foscari scrivendo che così come per gli Illuministi e per gli Americani di fine Settecento, la ricerca della felicità debba rappresentare un corretto principio da perseguire, come possibilità di espandere il benessere a tutti. Tutto abbinato a coraggiose scelte politiche.

Davvero complicato trarne quindi un univoco percorso tanto quanto invece si intraveda una speranza che sì, vi è la possibilità di farci un ragionamento, non vedo infatti nelle risposte alcuna negazione o chiusura all’ipotesi posta, anzi. Bene, continuiamo a ragionarci.

E se felicità, per i nostri giovani, significasse la necessità di trasferirsi e rimanere altrove? Felicità può significare rendersi conto di non tornare più indietro?

Se così fosse significa che quei circa centomila giovani (e non solo) emigrati all’estero nell’ultimo anno danno per acclarato che nel nostro Paese il raggiungimento della felicità è semplicemente un’utopia. Nessuno ne parla davvero eppure la questione meriterebbe grande attenzione non fosse altro perché sono comunque risorse che l’Italia investe per la formazione di questo target di popolazione “fuggente”.

Le ragioni spesso non bisogna nemmeno considerarle complesse, tanto per dare a noi stessi l’alibi dell’incontrovertibilità della faccenda. A volte le ragioni sono più che banali. L’Italia è composta, nonostante tutto, di centri piccoli o medi dove capacità, intelligenze, meriti, profusione di energie sono per paradosso ancor meno riconosciuti che non nelle grandi città: dal politico di bottega, dal prete che vuole il monopolio delle anime e non solo di quelle, dal direttore del giornaletto locale che ti vuole in esclusiva pena la non patente di pubblicista, dal datore di lavoro che ti sottopaga, ma tante sono le figure che potrei citare. Insomma, il clientelismo governa imperante e il “familismo” non lo è da meno. Considerato in via di estinzione il posto fisso, rimane la “piena occupazione precaria”, non più sostenibile per le non condizioni di “supporto” che nelle altre parti dell’Europa (e in altre parti del mondo) sono date per acclarate. È, questo fenomeno, il segnale più chiaro e più concreto della vera situazione economica e sociale del nostro Paese. Sfiducia verso un Paese che sai non può darti nulla ma per paradosso ti spinge a scappare dandoti la speranza per realizzarti, alla ricerca della felicità perduta, o forse semplicemente per liberarsi. Come dire che le percezioni viaggiano su binari paralleli alla realtà. L’obiettivo oggi, in futuro, non può essere altro che mettere quella che prima chiamavo “popolazione fuggente” in condizione di non subire più, a considerarsi liberi di scegliere.

Se ci rifletto un po’ su, mi accorgo che è da tanto che si parla di generazione bruciata. Talmente da tanto che comincio a capire che quelle bruciate sono più di una. Può essere che i “fuggenti” lo abbiano capito già da un pezzo? Può essere che come un altro illustre fuggente “la vera vita è dove la felicità è un insieme di piccoli fatti insignificanti?”.

Mimmo Oliva

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