Dalla Polonia all’Italia, l’aborto un diritto mutilato

Un “ritorno alle origini cristiane”. In queste ore in Polonia si sta discutendo sull’abolizione del diritto all’aborto. Il movimento “Porre fine all’aborto” in pochi mesi ha raccolto il consenso della ultraconservatrice premier polacca Beata Szydlo, e l’appoggio di molti vescovi che hanno definito l’attuale legge sull’aborto “inaccettabile”.

La missione del Prawo i Sprawiedliwość (PiS), formazione nazionalista e ultraconservatrice a guida del governo polacco, e delle divisioni cattoliche radicali Fundacja Pro, è quella di raccogliere 100 mila firme per poter presentare la proposta di legge in un paese in cui le prime e ultime a pagarne le conseguenze saranno proprio le donne. La Polonia sembra quindi voler confermare con questa azione, e dopo le recenti posizioni contrarie ad accogliere i rifugiati, la sua crociata nel difendere l’idea più profonda di nazione.

In Polonia, come in altri paesi, la legge sull’interruzione di gravidanza è prevista solo in particolari casi: disabilità del feto, rischio per la vita della madre e stupro. L’attuale proposta di abolire il diritto all’aborto sta ricevendo il supporto di molti politici polacchi e credenti cristiani, tuttavia ha incontrato la ferocia protesta di coloro che si sono dichiarati contrari all’iniziativa. In un video pubblicato dal giornale Gazeta Wyborcza lo scorso 3 aprile diverse donne hanno abbandonato la chiesa di Sant’Anne a Varsavia durante la Conferenza dell’Episcopato Polacco nel corso della lettura di alcune lettere contro l’aborto.

Spente le speranza di coloro le quali auspicavano in un miglioramento dei diritti delle donne in un paese il cui governo è guidato da una figura femminile. Per la Szydlo, che si era già fatta notare per l’accesa lotta contro l’ideologia gender, i diritti civili delle donne non sono una priorità se considerati un pericolo per l’idea di famiglia tradizionale. Posizioni, quest’ultime, che preoccupano anche l’Unione Europea, soprattutto dopo l’approvazione di un disegno di legge, da parte della camera dei deputati polacca, che prevede la creazione di un registro pubblico dei criminali sessuali accessibile a tutti. Informazioni riguardanti gli imputati accusati di misfatti sessuali – descrizioni corporali, localizzazione delle abitazioni – ma anche note circa familiari e\o persone vicine. Una pseudo caccia alle streghe in pasto alla gogna pubblica.

L’INTERRUZIONE DI GRAVIDANZA NEL MONDO

Da diversi anni la legislazione sull’aborto è tornata a essere uno degli argomenti centrali del dibattito sociale e politico. I recenti fatti di Varsavia riportano alla luce una disputa che trova livelli di restrizione diversi per ogni paese del mondo. Se in Polonia e in Irlanda il diritto all’aborto è riconosciuto solo per motivi sanitari (casi di stupro o pericolo di vita per la donna gravida), in Islanda, Finlandia e Regno Unito è concesso per cause socio-economiche. Mentre nel resto d’Europa e nel Nord America l’interruzione di gravidanza è autorizzata dalla legge senza particolari vincoli. In America meridionale la pratica dell’aborto è vietata, e concessa solo per salvare la vita delle donne. Non trova limitazioni invece in Oceania e in Asia, dove è riconosciuta in molti stati, fatta eccezione per l’India, l’Indonesia, l’Iraq e l’Iran. L’Africa è un caso a parte: l’aborto è riconosciuto e legale esclusivamente in Sud Africa.

E IN ITALIA?

In Italia l’aborto è sancito dalla legge 194, votata dai cittadini con referendum nel 1978. Una recente inchiesta ha riferito di come sette ginecologi su dieci sono ormai obiettori di coscienza. Nell’episodio datato 2014 al policlinico Umberto I di Roma le prenotazioni per le interruzioni di gravidanza furono sospese poiché l’unico medico che praticava gli aborti erano andato in pensione e tutti gli altri ginecologi si erano dichiarati obbiettori di coscienza.

Nel 2013 il Parlamento Europeo bocciò la risoluzione Estrela, relazione dell’eurodeputata portoghese Edite Estrela che avrebbe sponsorizzato l’aborto come diritto umano. La mozione fu respinta per soli sette voti mancanti, di cui sei erano dei deputati italiani del Partito Democratico. Successivamente, nello specifico l’anno scorso, il Parlamento europeo ha approvato la Risoluzione Tarabella e Panzeri: con quest’ultima è stato sancito a livello comunitario il riconoscimento del diritto all’aborto. Nel 2008 Giuliano Ferrara, politico e giornalista italiano, presentò la lista “Aborto? No, grazie” con l’intento di portare venticinque o trenta deputati alla Camera, tentando di superare almeno lo sbarramento del 4 per cento.

La strada compiuta dalla legge 194 sembra trovare sul suo cammino diversi ostacoli. La proposta di legge fu presentata con l’obbiettivo di sostituirsi al codice Rocco, codice penale fascista che negava l’aborto prevedendo pene da uno a cinque anni di reclusione, e definiva la prativa come un reato “contro l’integrità e la sanità della stirpe”.

La proposta di legge in Italia prende piede nel 1973, quando a Padova una giovane donna di nome Gigliola Pierobon viene accusata di procurato aborto. Sono gli anni del femminismo, delle proteste in piazza. Il processo a Gigliola diviene un fatto politico, e nel dicembre del 1975 più di ventimila donne sfilano a Roma in favore della pratica dell’aborto “libero, gratuita e assistito”. Tre anni dopo, nel maggio del 1978 – in ritardo rispetto agli altri paesi europei più avanzati – viene approvata la legge 194 “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”.

Negli anni la legge ha scatenato le ire delle ali conservatrici e cattoliche, sino ad arrivare dopo pochi anni, nel 1981, alle urne per votare il referendum abrogativo. La vittoria dei no fu palese. L’anno successivo si registrò un numero elevato di richieste di obiezione di coscienza da parte dei medici, considerato in un secondo luogo come un “vero e proprio boicottaggio della legge” (fonte: “Internazionale”).

È di soli due anni fa la relazione del ministero della salute che testimonia come il tasso dei ginecologi obbiettori di coscienza sia in aumento: in Molise, Basilicata, Campania, è quasi al 90%. Una situazione che coinvolge non solo tutto il sud ma anche buona parte del centro Italia. Storie di donne che hanno sofferto in attesa di un medico non obiettore sono state raccontate da Cinzia Sciuto in un inchiesta pubblicata nel dicembre del 2011 su “D” di “Repubblica”.

Alla luce di questi numeri e di queste testimonianze si è palesata la proposta di abolire 173

l’obiezione di coscienza all’aborto: con la suddetta chi oggi decide di intraprendere il mestiere di ginecologo dovrebbe prendere in considerazione la pratica dell’interruzione di gravidanza come un obbligo professionale e non come un atto di coscienza.

Tornare indietro rispetto a una legge come la 194 significa indietreggiare anche nel processo di civilizzazione. E in un paese considerato civile quale dovrebbe essere l’Italia guardare da un’altra prospettiva la pratica dell’aborto significa considerarla non tanto un diritto, quanto una necessità.

Fedora Alessia Occhipinti

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