“Britannia iacta est?”

L’espressione massima dell’identità nazionale britannica – da troppi ritenuta speciosa e permalosa – ha avuto ragione e si è affermata, dimostrando – a urne chiuse – che oltre la metà dei votanti sapesse poco o nulla sulle reali conseguenze del “leave”.

Lo stesso Cameron, pur avendo strappato nello scorso febbraio condizioni da “statuto speciale” per garantire la permanenza del Regno Unito, non ha convinto e le “concessioni” avute – storicamente senza precedenti – sono state ritenute e brandite dal fronte del Brexit come un atto di debolezza di Bruxelles, troppo in soggezione e preoccupata di perdere un partner d’eccellenza.

Insomma si è confermato il paradigma secondo cui il populismo, strategia politica che cavalca i mal di pancia generali del tipo “piove governo ladro”, fa più danni delle guerre.

Ma è solo questo? No, troppo semplice.
Che l’Unione sia debole (e non faccia nulla per nasconderlo) è un fatto certo.
La sua leadership – quando mostra i muscoli – è confusa e confusionaria, di conseguenza la visione comunitaria traballa sotto il peso delle identità locali radicali che crescono e s’irrobustiscono nutrendosi della perniciosa assenza di una realpolitik.

Se provassimo a chiedere ai cittadini europei (ma sarebbe meglio dire dei paesi membri) cosa sia l’UE, avremmo certamente risposte imbarazzanti.

A conti fatti rimane poco dello spirito dell’Unione quando il caposaldo di Schengen, cuore della filosofia europeistica sul libero scambio e circolazione di beni e persone, si sfalda miseramente sotto i colpi della fiumana di migranti in fuga da guerra e fame.

Si discute da troppo tempo e infruttuosamente sulle regole di Maastricht, ormai desuete e ridotte a uno spauracchio impagliato per i campi di cereali, e si urla allo scandalo per l’uso improprio dei fondi comunitari, anima economica e finanziaria di sviluppo possibile che, nel senso comune, sembrano distribuiti con modalità e logiche lobbistiche e di opportunità politica.

Che Europa è mai questa?

La gente d’Europa si chiede se le finanze nazionali sino ancora sotto sovranità specifica visto che di contro non si riesce a far decollare un progetto politico ed economico federale sostenibile, fondamentale ad accompagnare in porto le legittime aspettative delle nuove generazioni.

Come in un dopo sbornia, a qualche giorno dal sorprendente esito popolare, si prende piena coscienza del danno. La tentazione britannica è di differirne gli esiti, prendendo tempo.

Merkel, Holland e Renzi chiedono l’ufficializzazione dell’exit, Cameron – di contro – non intende assumersi la responsabilità di farlo: sarà compito del prossimo inquilino di Down Street che, verosimilmente e dall’aria che tira, non arriverà prima del prossimo settembre.

Intanto i mercati, per isteria o per calcolo, bruciano miliardi di euro: un bel pasticcio.

Ci chiediamo quando se ne esce ma soprattutto come. I più ottimisti pensano che forse il male non sia arrivato proprio per nuocere, che si delinea un nuova era: un sorta di rifondazione. Altri, invece, tremano al pensiero di un possibile effetto domino che potrebbe innescare ulteriori exit.

In un caso o nel altro conteremo morti e feriti più di quanti ci si possa aspettare.

Il mondo dei social ironizza sulla quantità (e la qualità) di commenti politici ed economici sulla questione. Per non essere da meno vi confermo che oltre manica fanno proprio sul serio: l’Inghilterra saluta in malo modo anche gli Europei di calcio. Che pena, speriamo almeno nel Galles.

Francesco Paciello

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