Luigi Grechi De Gregori: la musica ha bisogno di posti d’incontro

Al Rodaviva, a Cava de’ Tirreni, sabato 25 febbraio si è esibito uno straordinario Luigi Grechi De Gregori. Chitarra e voce hanno creato un’atmosfera unica che, dice: «È la dimensione giusta. Il posto in cui la musica dovrebbe stare», lì nei piccoli club, nei posti intimi. Durante la serata, ha eseguito i suoi pezzi e ha raccontato un po’ di sé e della sua storia, senza tralasciare i legami con il panorama musicale internazionale. Durante il concerto ha toccato l’aspetto sociale, raccontando le storie che sono diventate canzoni, interagendo con il pubblico e facendolo entrare nella sua officina creativa.

Tra le tante canzoni proposte c’è “Non ho più casa”, rifacimento di una vecchia canzone anni ’30, “I ain’t got no home” di Woody Guthrie a cui, per altro, è dedicato un Festival Falk. Una canzone sempre attuale perché oggi, spiega, basta un terremoto, un licenziamento, debiti con le banche, annate cattive e ci si ritrova senza più un tetto sulla testa. E poi il racconto di com’è nata “Angel of Lyon” di Tom Russell e Steve Young, di cui ha curato un rifacimento. Young, durante un suo concerto, incontra una ragazza; nel corso della serata la cerca con lo sguardo immaginando un prosieguo. Il concerto finisce e della ragazza non c’è più traccia e allora tornando a casa, racconta all’amico ciò che è accaduto. Quell’angelo di Lione, simbolo per Grechi di un amore platonico e di un uomo che è capace di perdersi nella ricerca di un’immagine. È stato ironico quando ha cantato Elogio al tabacco, brano politicamente scorretto, ma con un significato ben preciso: l’inquinamento di se stessi con il fumo è una questione personale, l’inquinamento ambientale è invece da eliminare. Il riferimento, nella canzone, è alla fabbrica ICMESA di Meda, provincia di Seveso, al centro di un incidente, il 10 luglio 1976, che causò la fuoriuscita e la dispersione di una nube di diossina.

Lo incontro dopo il soundcheck. Classe 1944, origini venete, vissuto tra Pescara e Roma, una vita dedicata alla musica folk angloamericana e al country. Nasce musicalmente alla fine degli anni sessanta al Folkstudio di Roma, a Trastevere, luogo di formazione di tutta la cosiddetta scuola romana dei cantautori. Il primo album, “Accusato di libertà”, è del 1976, l’ultimo “Tutto quello che ho” del 2015. In mezzo, viaggi, collaborazioni, canzoni come “Dublino”, e quel “Il bandito e il campione” portata al successo dal fratello Francesco De Gregori, dedicata a Costante Girandengo e al suo rapporto con Sante Pollastri, con un richiamo allo sport come palestra per la vita.

La sua biografia parla di libertà e di viaggio. «Di libertà me ne prendo quanto basta per me – dice – Essa è autonomia anche se c’è la natura che ci costringe. Non siamo liberi di fregarcene che tra sei mesi sarà inverno! La libertà esiste come dimensione di pensiero indipendente, spirito critico. È quella dentro la testa, che ci permette di sognare, di avere idee, di comunicarle».

La storia musicale fatta di country-falk e di sonorità particolari si è intrecciata raramente con quella del fratello Francesco. Poche le collaborazioni. «Non siamo mai stati a tavolino a scrivere insieme. Le canzoni che ci legano, ci hanno stretto in periodi diversi della vita», racconta. Francesco per la prima volta si esibì al Folkstudio, la domenica po- meriggio ed è stato un successo. Luigi in quel caso, aveva visto lontano.

Tra i suoi autori di riferimento c’è Bob Dylan, insignito Nobel per la letteratura. Il discorso diventa interessante. Fuori continua a piovere e dentro parliamo di quanta poca letteratura di valore ci sia in giro perché il Nobel non si era mai occupato di musica prima. «La letteratura si esprime solo con la parola scritta mentre la canzone si esprime con l’incontro di parole e musica: è un’opera d’arte». Diverse sono le arti visive: «Il video non è l’immagine sopra la canzone ma è un’armonia. Se la canzone è bella non c’è bisogno di immagini, una canzone bella suscita immagini».

Dopo aver viaggiato tanto e aver messo il viaggio al centro dei suoi lavori, oggi vive in Umbria, in campagna. «Non è un posto isolato, ma è tranquillo. Questa coincide con la casa ideale. Siamo fortunati. L’Italia è un posto comodo. La mia casa potrebbe essere anche qui, Cava de’ Tirreni, il salernitano: un posto tranquillo».

Eppure l’immagine che si ha dell’Italia è diversa, non trova? «Sì, la gente pensa che tutto il Centro Italia sia terremotato. E di questo ne paga il prezzo anche la Campania. Si pensa che tutta la regione assomigli a quella dei film del neorealismo di cinquant’anni fa e che sia un disastro. Mentre posso assicurare che nel salernitano mi è sempre sembrato di essere in un altro paese. Vorrei che la gente sapesse che tolti 10 chilometri quadrati dell’appennino, in Centro e Sud Italia si sta benissimo».

Ai giovani chiede coraggio e dice: «Sostenete la musica dal vivo in posti come il Rodaviva. Non parlo dei concerti evento, in luoghi che non hanno molto a che fare con la musica ma luoghi in cui c’è ascolto musicale attento». L’acustico, la dimensione intima e quel contatto tra pubblico e artista che in uno stadio è impossibile. «E poi, questo genere di musica – conclude – per molti ha rappresentato la salvezza. Se qualcuno ha un progetto musicale lo porti in un posto d’incontro, non c’è bisogno di molto per essere soddisfatti».

Infine racconta di avere un libro a cui sente di essere vicino. Si tratta di “L’ultima estate di Klingsor”, di Herman Hesse. «A me ha colpito la coincidenza di un carattere, di un nome, Luigi. Mi sono appropriato della storia. Nella mia vita c’è il viaggio e la penna pensante che scrive. Ecco, questo sono io».

Anita Santalucia

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