ANTROPOLOGIA DA CORONAVIRUS

Il giorno in cui l’epidemia da Covid-19 terminerà (credo con un’implosione analoga alla sua esplosione), ho ben ragione di intendere che psicologi ma soprattutto antropologi avranno abbastanza materiale per riscrivere un’opera monumentale, quasi da eguagliare per mole e per fortuna l’Antropologia strutturale di Claude Levi Strauss (Anthprologie structurale) realizzata del 1958 per Il Saggiatore di Milano con traduzione di Paolo Caruso.

Ne avranno ben donde poiché poche volte nella storia è capitato che determinati comportamenti, atteggiamenti, modi di essere e diversi modus vivendi abbiano potuto rinvenire un percorso comune per assumere una linea che difficilmente porterà ad errori di interpretazione. Intendiamoci, in situazioni di emergenza, o peggio, di stallo in cui sembra essere perduto o pessimisticamente si realizza un mutamento brutale della propria abitudine di vita che mina anche le stesse radici essenziali per una tranquilla quotidianità, chiunque viene pervaso da sensi di angoscia, smarrimento ed inquietudine. La prima differenziazione sta proprio in questo, riconoscere e giudicare comportamenti dettati da una follia lucida, ma ascrivibile ad un timore giustificato, ed azioni dettate da un razionale motivo.

Non avendo la pretesa né le competenze per esprimere la mia sui tempi o sugli eventuali ritardi delle decisioni o sulle norme governative di draconiana memoria (ne so troppo poco per provare a considerare se esse si fossero potute evitare ma umilmente credo che sarebbero state ineluttabili dato l’importante crescita dei contagi e dei ricoveri di persone contagiate dal Virus), una considerazione sul come le suddette norme sono state recepite dalla popolazione italiana credo si possa fare.

Occorre distinguere anzitutto le diverse risposte, anzitutto quella giovanile. Una risposta desolante. Le immagini propostaci da diversi canali televisivi, in particolar modo al programma “L’aria che tira” in diretta su la 7, ritraenti frotte di giovani che, incuranti delle norme di sicurezza che impedivano assembramenti, continuavano a compiere i loro atti menefreghisti e totalmente irresponsabili guardando con occhio di sfida e di superiorità l’intervistatrice che non a caso poneva loro domande provocatorie, ci dà l’idea del profondo degrado e del pessimismo atavico che la nostra generazione giovanile (fortunatamente non tutta) inevitabilmente ci porta ad assumere. Peggiorando la propria condizione, molti di loro si sono giustificati ponendo innanzi la motivazione, alquanto puerile, che le norme governative che vietavano ogni raduno non erano ancora entrate in vigore; qualcuno potrebbe far notare loro che le loro azioni erano state compiute non mesi addietro, quando niente lasciava presagire il disastro, ma appena settantadue ore prima, in piena crisi. Un atto di responsabilità, di maturità non era chiedere troppo. Tralasciando, ma il lettore mi perdonerà la preterizione, di dichiarazioni aberranti già a lungo trattare dai benpensanti come deprecabili sul “tanto muoiono solo anziani e malati”, vi è un elemento essenziale nella psicologia giovanile a lungo trascurato che è possibile anche associare a diverse tragedie accadute che hanno mietuto vittime soprattutto giovanili; ciò che alberga nelle menti dei giovani, da sempre, è la consapevolezza che la morte sia un qualcosa di lontano, di estraneo alla loro condizione, come se in qualche modo la spensieratezza, il vigore della giovinezza conseguenzialmente vinca la moira. Il che, da un lato, è giusto. Ciò che è sconsiderato, è lo sregolato piacere e la sfida cieca di condizioni di pericolo contro l’eterna Signora che è e sempre stata livella. Necessaria non sarebbe un fatalistico ed onnipresente senso del funereo o un perenne “memento mori” di troisiana memoria, ma semplicemente un’esorcizzazione della stessa per poterla evitare, anche solo con il pensiero. La paura altro non è che senso dell’ignoto. “Ma ricordati sempre/ che i mostri non muoiono/ quello che muore è la paura che ti incutono”, scriveva Cesare Pavese. La consapevolezza di ciò che si ha paura è un primo passo per conoscere, in faccia ciò che si teme per razionalizzare su tutto. Ne “Il Settimo sigillo”,  Antonius Block, interpretato da Max von Sydow, scomparso proprio in questi giorni, conversava alla pari con La Morte (Bengt Eckerot), nella celeberrima partita a scacchi.

Un’ulteriore riflessione, più ampia, scaturisce dalla gestione della comunicazione che in mano a certe persone rischia seriamente di diventare un’arma.  In questi giorni, in queste ore, assistiamo all’affermarsi di diverse tipologie di personaggi e di abitudini degne di un crudo e spietato ritratto monicelliano di caratterizzazione del genere umano. Se colui che diffonde notizie false (andrebbe inasprito il codice penale) oggi quasi non è più di moda e per fortuna si riesce subito a stanare, difficile da contenere è invece colui che, forse preso da una sindrome da giornalista mancato, invia nevriticamente, disordinatamente e superficialmente, le notizie che dopo una manciata di secondi sono a conoscenza di tutti. Ciò che risulta ancora più caratteristico e quasi pittoresco della psicologia di questo personaggio è che egli è perfettamente consapevole della sua non originalità, ma persevera nella sua azione, come se fosse convinto di essere il portavoce del Ministero della Salute. Non si rende conto, il nostro sfortunato amico, che il suo comportamento, oltre che contribuire a creare un clima di tensione ed un malanimo specialmente per quelle persone più fragili, contribuisce a togliere spazio a chi, a differenza sua, un qualcosa da condividere di utile la possiede.

Ne usciremo? Mi sa’ di si. La Cina,  che ha quattro volte la nostra popolazione ma con una millenaria storia di rigore e di disciplina, ha festeggiato proprio nei giorni scorsi la fine dell’epidemia dopo l’ultimo paziente guarito. L’amara lezione che ci porteremo dietro sarà la totale mancanza di fiducia per quella rilevante parte di popolazione (ripeto, non tutta) che in situazioni di emergenza riesce a dare il peggio di se e fornire un pessimo esempio di zelo, diligenza per le giovani generazioni.

Stefano Pignataro

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