Pensieri contemporanei: intervista a Marcello Masi

Giornalista di rara simpatia, posso testimoniarlo, Marcello Masi è un personaggio terragno, volitivo e dotato di riconosciuto pragmatismo sul lavoro. Direttore del Tg2 dal novembre 2011, ha dato vita a un profondo e fortunato restyling della prestigiosa testata di mamma Rai. Ci accomunano il piacere per il vino d’autore e la passione per i cani e gli animali in genere.

Partendo dai dati sull’astensionismo elettorale, e in particolare sul crollo diffuso del numero dei votanti tra 1° e 2° turno delle ultime consultazioni, si può affermare che la partecipazione politica “affascina” sempre meno?

«Il fenomeno dell’astensione nel nostro Paese ha raggiunto ormai il livello di guardia. A chi lo interpreta come un allineamento alle performance delle altre grandi democrazie occidentali rispondo che si tratta di una lettura parziale e non corretta. Si è rotto il meccanismo della partecipazione scontata, oggi l’elettore appare deluso e confuso, disilluso e arrabbiato. Il non voto è una precisa manifestazione di sfiducia nei confronti della politica, che non può e non deve essere sottovalutata».

Nell’immaginario collettivo si consolida la convinzione che i partiti siano concretamente in mano a grandi elettori. Secondo lei, è vero, perché e chi sono?

«È la legge elettorale che ha creato questa convinzione. Gli attuali meccanismi di fatto consolidano il potere di scelta centrale alleggerendo il peso decisionale della competizione sul territorio. Un fenomeno che contribuisce ad affievolire il rapporto tra eletto ed elettore».

A suo giudizio, cos’è e quanto conta la credibilità in politica?

«Onestà, credibilità, e capacità. In politica sono tutto».

La politica di governo sembra annaspare nel tentativo di dare risposte concrete ai bisogni reali dei cittadini. I numeri disegnano un paese frammentato e al collasso. Qual è il senso di “partito liquido” lanciato da Renzi in una fase in cui l’offerta politica non riesce a incontrare la domanda?

«Chiunque governi l’Italia deve fare i conti con meccanismi decisionali non al passo con le sfide globali. Le riforme strutturali sono le più difficili da portare in porto, ma sono le uniche che possono far intercettare il Paese reale da quello rappresentato nelle Istituzioni. Il presidente Renzi, come molti dei suoi predecessori, deve fare i conti con un apparato dello Stato che molte volte funge da ancora alla spinta riformatrice».

Se è vero che la fiducia nelle istituzioni abbia toccato il fondo a quali rischi si espone il Paese?

«Non c’è dubbio che stiamo vivendo un periodo di grande incertezza e sfiducia. Un periodo che nella nostra storia ha pochi precedenti. I rischi sono evidenti, ma credo sia indispensabile non perdere mai di vista il quadro generale, non solo italiano, che caratterizza questa nostra epoca. L’Italia è e resta un grande Paese, la classe politica si sta faticosamente rinnovando. Bisogna guardare al futuro con una robusta dose di ottimismo. Le alternative alle scelte democratiche sono sempre in agguato».

Gli sbarramenti elettorali privano la rappresentanza parlamentare a molti milioni di votanti. Come si coniuga questo diritto negato con la necessita di governare? E, secondo lei, esiste una modalità alternativa?

«I modelli elettorali sono, per definizione, mai perfetti. A un pregio corrisponde un difetto. Negli ultimi anni sull’altare della governabilità si sono fatti tanti sacrifici. Personalmente, credo che la rappresentanza proporzionale pura sia la scelta più democratica, ma nello stesso tempo ricordo i Parlamenti dilaniati e immobilizzati da formazioni politiche dello zero… Il compromesso non è facile, affermare il contrario è facile, ma non dimostrabile facilmente».

Sostanziali e rapide trasformazioni culturali e tecnologiche farebbero pensare che, in fondo, non si stia peggio rispetto al secolo scorso. Eppure tra la gente si coglie una diffusa sfiducia nel futuro. Come si spiega questa che sembra essere un’apparente contraddizione?

«Viviamo in una società che si specchia di continuo, ogni bisogno secondario viene amplificato e crea frustrazione. Siamo passati troppo in fretta da una collettività affamata a una a dieta. Tutto è a portata di mano, e nello stesso tempo irraggiungibile. La speranza negli anni ‘50, ‘60, ‘70 e in parte negli anni ‘80 viaggiava sull’ascensore sociale. Ognuno aveva una possibilità, nonostante le mille difficoltà, oggi l’ascensore è guasto e nessuno sembra in gradi di saperlo riparare. Anche questo contribuisce ad alimentare un generalizzato clima pesante».

Nel quadro istituzionale attuale sembra difficile definire quanto il Sud conti nelle priorità dell’agenda politica di governo. Quali sono, secondo lei, i motivi e cosa si può fare per riportare la questione meridionale al centro della partita?

«Credo che uno degli errori più gravi della nostra storia Patria sia stato quello di aver rappresentato il Meridione come un problema e non come una risorsa. Le politiche assistenzialisti non hanno mai prodotto benefici duraturi e sono stati causa diretta di corruttela e abusi. Il Meridione ha bisogno di piani strategici e visioni, di politica e politici in grado di esaltarne le immense potenzialità. Credo che sia giunto il momento di un vero e proprio Rinascimento Meridionale, i tempi sono maturi».

Qual è il peso specifico delle attività politiche locali e in che modo possono influire sulle dinamiche delle strategie centrali?

«Oggi più che mai la politica deve tornare a misurarsi con i problemi reali. Le palestre amministrative locali sono le uniche in grado di selezionare la buona politica e i bravi politici. Senza una base solida nessuna altezza è raggiungibile».

La felicità è un argomento politico e perché?

«Sì la felicità individuale e collettiva dovrebbe essere materia di riflessione politica continua».

Francesco Paciello

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